IL MONDO É TUTTO CIÒ CHE ACCADE – Considerazioni attorno al 9 dicembre e ai cosiddetti “forconi”

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humanas actiones, non ridere, non lugere,

neque detestari, sed intelligere

Spinoza

L’ostinata moltitudine cede per ultima;

le altre vacillano incessantemente

Anonimo, Prima modernità

La rete come cartina al tornasole
Molte cose sono state dette su questi giorni, ribattezzati da molti (in modo a nostro avviso semplicistico), come “mobilitazione dei forconi”. Non ci ha stupito l’interpretazione che il partito di Repubblica ha offerto; ci ha invece lasciato particolarmente perplessi la reazione, così decisa e netta, che abbiamo potuto osservare sulla rete da parte di molt* compagn* con cui da anni condividiamo percorsi e lotte. È proprio a partire da questo dato che ci sentiamo stimolati a provare a costruire una riflessione su quanto sta succedendo, senza aver alcuna pretesa di comprendere fino in fondo le giornate.

Viviamo in una città, Pisa, che non ha espresso alcun tipo di partecipazione a questa mobilitazione. Non crediamo che questo sia un caso; anzi ci pare che anche un rapido sguardo a quanto successo, imponga una riflessione sui differenti contesti urbani in cui maggiormente ha attecchito la convocazione del 9 dicembre. Per il momento ci basta dire che, poichè a Pisa “il movimento dei forconi” non ha avuto rilevanza, la nostra analisi non può che partire dalle informazioni che abbiamo potuto trarre, principalmente dalla rete, che è stata, ci pare, lo strumento principale dell’organizzazione, della diffusione, e della “valutazione” politica della mobilitazione.
Crediamo che questo sia un primo, importantissimo, dato da cogliere. Ed è proprio per questo, forse, che siamo portati a prendere sul serio anche quei commenti e quelle considerazioni a caldo che abbiamo riscontrato fin da subito, soprattutto sui social network.
È da tempo che come esperienza politica ci interroghiamo e proviamo ad analizzare il fenomeno del rapporto tra rete e “piazza”, e crediamo che stia succedendo qualcosa di inedito ma non inaspettato nell’ “era Grillo”. Da un punto di vista evidentemente molto parziale, ci troviamo a constatare che, per la prima volta, sulle nostre bacheche, una giornata che riempie le piazze italiane, (e lo fa, al di là di ogni valutazione di merito e di metodo, contro la crisi), è avversata, senza se e senza ma, dai/lle nostr* compagn* e da tanta parte dei circuiti di movimento; è invece quantomeno guardata con interesse, se non addirittura condivisa, dai nostri contatti non militanti.Le immagini dei cortei e delle azioni del 9 dicembre e a seguire, riportate dai principali quotidiani online e anche da tante e tanti compagn*, hanno offerto in vario modo la possibilità di confermare quanto era stato anticipato nei giorni precedenti. In molti avevano infatti già provato a “smascherare” quali fossero le organizzazioni che si “nascondevano” dietro ai molti Coordinamenti 9 dicembre che stavano nascendo sul web. Pensiamo ad esempio alla risonanza e alla condivisione che ha avuto l’articolo di Osservatorio Democratico (http://www.osservatoriodemocratico.org/page.asp?ID=3423&Class_ID=1004).
Sono tante e varie le ragioni per le quali la giornata del 9 dicembre è stata immediatamente tacciata di essere fondamentalmente reazionaria, di destra, di matrice fascista o protofascista, legata in qualche modo alle organizzazioni di estrema destra o comunque profondamente e totalmente distante da “noi”. D’altra parte crediamo che quelle stesse immagini condivise per lo più allo scopo di discostarsene possano essere problematizzate in maniera differente.
È da qui che vogliamo partire per provare ad abbozzare un’analisi del fenomeno che abbiamo visto nelle piazze in questi giorni.

Nell’Europa della crisi, i significati di una vecchia bandiera
Quando abbiamo visto la bandiera italiana sventolare in tutte le piazze, non abbiamo potuto fare a meno di provare un senso di radicale estraneità e distanza. Gli stessi slogan che abbiamo potuto sentire, sono ben lontani da quelli a cui siamo abituati e che condividamo. Capiamo dunque perfettamente la reazione di molti e molte, e anche noi l’abbiamo condivisa in un primo momento, com’è naturale. Tuttavia, fermandoci un momento a riflettere più a fondo, ci è subito sembrato che una simile riduzione di un fenomeno di tale portata a semplice “rigurgito nazionalista”, quando non fascista, fosse non soltanto estremamente limitante, ma molto pericoloso.
Ci chiediamo, infatti: cosa rappresentava la bandiera italiana per chi è sceso negli scorsi giorni in piazza? Possiamo davvero credere che, le centinaia di persone che hanno attraversato la mobilitazione, vi vedessero un simbolo patriottico, nazionalista e di richiamo fascista? E ancora, in che modo ciò che la bandiera italiana significa per noi marca una reale distanza dalle piazze? Ci sembra che questo sia un problema su cui interrogarsi.

Per arrivare a una maggiore comprensione di ciò che è accaduto a partire dal 9 dicembre e ancora potrebbe accadere, abbiamo bisogno di prendere sul serio la performatività discorsiva del nazionalismo. In un contesto che vede il principale nemico pubblico nell’Europa delle banche, una cosa “vecchia” come “la nazione” costituisce ancora il campo di inclusione ed esclusione entro il quale chi protestava trovava il proprio terreno di legittimazione.
Si tratta, però, di qualcosa di ben diverso da quello che solitamente intendiamo per “nazionalismo”: A nostro parere, infatti, nel contesto della giornata del 9 dicembre, forse o sicuramente non per tutti, ma per molti, la bandiera italiana, così come l’Italia, così come la retorica della nazione, non sono altro che una delle forme che l’antieuropeismo può assumere. O, meglio ancora, si tratta dell’unico immaginario “a portata di mano”, in grado di fungere da appiglio comune per un’opposizione che è generale (all’Europa, all’austerity, alle banche, ma anche ai partiti, alla “casta” o come la si voglia chiamare, alla crisi in tutti i sensi).

In fondo, non ci ha spaventato vedere la bandiera turca sventolare a Gezi Park, nè la bandiera verdeoro guidare le grandi rivolte brasiliane.
Certo, per quanto ci riguarda, continuiamo a credere che non vorremmo mai vedere qualsiasi forma di rivolta avere come simbolo, in Italia, il tricolore. Detto questo, pensiamo che la bandiera italiana, durante le scorse giornate, abbia anche subito una qualche forma di rifunzionalizzazione, che ci permette di inorridire meno nel vederla tra le mani dei manifestanti.
Che dire, infatti, di tutti quei (tanti) migranti che in alcune città, hanno attraversato cortei alla cui testa stava una bandiera italiana? Crediamo davvero che anche in questi casi sia stata sventolata con intenzioni nazionaliste?

Antieuropa e antistato
È una caratteristica di questa mobilitazione che ci sembra emergere con chiarezza, il fatto che all’antieuropeismo si associ un forte sentimento antistatalista, che, certo, passa in maniera ambigua per le rivendicazioni anti-tasse, ma che in fondo, non esprime qualcosa di così diverso da tante istanze che noi stessi abbiamo cercato di portare in piazza.
Definiamo “ambigue” queste rivendicazioni, nella misura in cui non prendono evidentemente le mosse da una messa in discussione di livello sistemico, ma da posizioni perennemente a rischio di particolarismo o, peggio, corporativismo.
D’altra parte, è da tempo che in varie forme esprimiamo come movimenti l’esigenza di contrapporsi a un sistema fiscale che grava sui soggetti colpiti dalla crisi, seppur con le difficoltà dovute a una particolare situazione politica italiana su questo tema – ci riferiamo al fatto che tale istanza sia stata per larga parte sussunta e incanalata in maniera perversa dalle destre di questo paese. Il fatto che queste istanze partano oggi dalle piazze, ci impone di articolare urgentemente un ragionamento in merito.

Di sicuro, lo ribadiamo, il nostro essere antieuropeisti così come il nostro essere antistatalisti è ben diverso, semanticamente, da quello che abbiamo visto in questi giorni; altrettanto crediamo che le prospettive che per noi si diramano a partire da queste connotazioni, sono molto lontane dai sentimenti di chi era in piazza. Ma questo è davvero un limite di quella “composizione” oppure specchio della tanta strada che ancora abbiamo da percorrere per costruire un messaggio chiaramente accessibile e condivisibile su un’Europa radicalmente diversa?

“Ceto medio impoverito” e altre categorie : quale composizione sociale?
Le numerose analisi che sono state prodotte attorno al fenomeno del 9 dicembre hanno marcato evidenti differenze d’interpretazione. Su un punto, però, ci sembra ci sia una sostanziale condivisione: la definizione piuttosto netta della composizione sociale che l’ha costruita, attraversata, realizzata. Si tratta, infatti, non tanto, veramente, di “fascisti, razzisti o nazionalisti” ma piuttosto, o quanto meno in prima istanza, di quel famoso “ceto medio impoverito”, dicitura ormai scolastica, che è stata al centro di molte ormai note analisi dei movimenti nell’ultimo anno.
A noi però sembra che quello che è successo e sta ancora succedendo in questi giorni abbia avuto facce molto diverse a seconda dei differenti contesti territoriali in cui si è verificato. Le categorie lavorative protagoniste di questi giorni sono profondamente diverse tra loro, e, forse, non restituiscono davvero fino in fondo la cifra di ciò che è comune a chi in questi giorni ha animato le piazze. Non è neppure detto che vi sia un’effettiva cifra comune tra le diverse piazze, o tra le differenti “culture politiche”, ancor più dov’è evidente la totale assenza di queste. Tuttavia pensiamo che in qualche modo lo stimolo che porta queste differenti categorie sociali e lavorative, negli stessi giorni nelle piazze sia qualcosa di piuttosto concreto ed evidentemente diffuso nella tragedia sociale che è la crisi. Non riusciamo a condividere “l’entusiasmo” con cui si guarda alla cosiddetta “rabbia sociale”; d’altra parte ci sembra miope la riduzione di questo fenomeno a becero individualismo o corporativismo di destra, razzista e reazionario.
Non ci spaventa dire che al momento non abbiamo alcuna categoria adatta a offrire una chiave di lettura chiara per quanto sta succedendo; non ci spaventa nemmeno dire che, in questo contesto di crisi senza precedenti, l’uso delle nostre categorie risulta attualmente inadatto. Infine crediamo che in questo momento più che di categorie ci sia bisogno di quella famosa “inchiesta militante” che al momento non ci sembra che, come movimenti, siamo riusciti a produrre.

“Ma sono fascisti e razzisti!”
Vorremmo provare a soffermarci sulle tinte fasciste, razziste, machiste che queste giornate hanno mostrato, in maniera, lo ripetiamo, anche a nostro avviso preoccupante.
Innanzitutto crediamo che l’effettiva presenza di organizzazioni di estrema destra sia un fenomeno circoscrivibile e soprattutto differente a seconda dei contesti. Di certo queste forze hanno avuto un ruolo significativo in alcune città; d’altra parte, in molte altre, nelle quali mai le organizzazioni di estrema destra hanno avuto alcuna importanza, il cosiddetto “movimento dei forconi” si è caratterizzato per l’essere animato da una composizione sociale che con esse ha ben poco a che fare.
I fascisti, quelli veri, vanno combattuti sempre, come sempre hanno fatti i movimenti in italia, attraverso le pratiche dell’antifascismo militante che tanta parte hanno avuto in questo paese nel ridurre le organizzazioni di estrema destra agli angoli di ogni scenario politico. Ciò non significa che in certe città i fascisti non siano ancora un enorme problema, ma di certo non sono il principale problema con cui confrontarsi quando si guarda al 9 dicembre.
Diciamolo chiaramente, se i fascisti in Italia avessero una simile capacità mobilitativa e una simile capacità comunicativa, allora sì, avremmo un problema grosso davvero, che andrebbe ben oltre il fenomeno dei forconi.
Ma, certo, più che le eventuali dietrologie sulle organizzazioni di estrema destra, ciò che più ha inquietato tutti noi in questi giorni è una certa retorica razzista, cui accennavamo già qualche riga sopra. A questo proposito crediamo che le considerazioni da fare siano tante, e piuttosto complesse. Innanzitutto, che il razzismo sia un fenomeno diffuso in tanta parte di tutti gli strati sociali in questo paese è un fatto, seppur declinato in forme molto diverse. Eppure, come dicevamo, in alcune piazze, anche di città di quel nord tipicamente razzista, gli “autoctoni” sono scesi in piazza insieme ai migranti. E questo è un fatto ancor più importante, per quanto ci riguarda.
Certo, non c’è niente di lineare in tutto ciò, niente di facilmente analizzabile, e nessuna ragione per non continuare a guardare con estrema attenzione a quanto sta succedendo.

Stazioni occupate e sbirri senza casco – sulle pratiche di mobilitazione
Un elemento che ci sembra particolarmente significativo in tutta questa vicenda è sicuramente quello delle pratiche che sono state messe in campo in questi giorni. Blocchi stradali, occupazioni delle stazioni e altre forme di mobilitazione che noi stessi, come movimenti, abbiamo diffuso e reso riproducibili in questi anni.
Queste azioni, seppur capitanate da bandiere italiane e accompagnate da numerose situazioni di cui abbiamo già evidenziato la problematicità, scardinano, a nostro parere, un’altra delle caratteristiche, che credevamo certe, di questo “ceto medio impoverito”: il legalitarismo. In fin dei conti, questi “cittadini onesti” non hanno avuto alcuna difficoltà nel rompere le barriere della legalità per aprirsi spazi di movimento. Non possiamo non pensare a quanta parte della cosiddetta Sinistra, sociale e politica, ancora non ha saputo fare altrettanto, nè tanto meno accettare che altri scegliessero simili strumenti di lotta.

Vorremmo spendere ancora qualche parola sulla reazione scomposta che hanno suscitato le immagini e i video di quanto accaduto a Torino. Cinque secondi in cui un gruppo di carabinieri si toglie il casco ottenendo il plauso dei manifestanti che gridano “Siete come noi”. Una scena che ha spinto moltissimi a segnare una clamorosa distanza con quella piazza. Da parte nostra non vediamo il senso di prestare così tanta importanza a una simile situazione, e, in effetti, non la riteniamo così significativa. Ci è capitato molte volte, costruendo e attraversando i movimenti studenteschi degli ultimi anni (che, cosa non da poco, rappresentano una composizione il cui grado di soggettivazione politica è di certo più elaborato rispetto a chi ha animato queste recenti giornate) di sentire qualche studente citare Pasolini e auspicare a una qualche possibile “ricomposizione” tra le parti.
Abbiamo sempre avuto la capacità e la forza di rigettare una simile ipotesii, tutte le volte in cui qualcuno l’ha fatta presente, l’abbiamo sempre ritenuta un po’ senso comune un po’ ingenuità politica. Di certo non abbiamo indicato come fascisti o “amici delle guardie” chi faceva propria questa litania sempre, purtroppo, enfatizzata dall’informazione mainstream riguardo ogni occasione di piazza “da salvare” .
Lo scorso 15 novembre siamo scesi in piazza come studenti, in una mobilitazione che noi stessi abbiamo contribuito a costruire. Su Repubblica quel giorno campeggiava un video su Milano in cui uno studente che si era dipinto le mani di vernice per appoggiarle sugli scudi dei carabinieri diceva “Potrei essere un loro figlio”, riportando alla mente di qualche scaltro giornalista del quotidiano online le parole di Pasolini che infatti citava di seguito. (http://video.repubblica.it/edizione/milano/milano-mani-di-vernice-contro-i-poliziotti-lo-studente-cita-pasolini/146724/145242).
Niente di così nuovo, insomma, e niente a cui dovremmo dare maggior peso di quanto abbiamo sempre fatto.
Certo, queste situazioni possono diventare problematiche nella misura in cui mettono a rischio la capacità di espressione di un conflitto radicale, ma c’è una bella differenza se a portarle nelle piazze sono soggetti organizzati e di movimento, con storie decennali alle spalle, e quando invece a metterle in pratica è una composizione multiforme e variegata, di certo non organizzata e non appartenente a una cultura politica ben definita. Meno di un mese fa, nella nostra città, nel contesto della mobilitazione nazionale del 16 novembre, un corteo nazionale convocato per la rioccupazione di un centro sociale, si è trasformata in colorati abbracci ai poliziotti, seguiti da letture di poesie e altre azioni performative.
Eravamo a quel corteo, non abbiamo potuto fare a meno di nascondere la nostra totale e netta perplessità e non condivisione di certe pratiche, per quanto ci riguarda deleterie in quel contesto e nella nostra città. Vedere simili scene durante un corteo nazionale di uno storico centro sociale di Pisa ci ha lasciati decisamente più allibiti di quanto non abbiano fatto le immagini dei giorni scorsi.
Eppure, all’indomani di quel 16 novembre, non abbiamo visto reazioni altrettanto scomposte. E sappiamo bene il perchè: non è affossando le piazze quando non sono all’altezza delle nostre aspettative, della nostra rabbia o quando non sono in grado di fornire una risposta all’altezza dell’attacco che viene perpetrato attraverso la crisi, che si passa dalla moltitudine in sè alla moltitudine per sè.

Per farla finita con l’idea di sinistra, per davvero.
Avviandoci verso la conclusione, ci sentiamo di dire con estrema sincerità che abbiamo riscontrato e continuiamo a riscontrare grossissime difficoltà nell’analizzare questo fenomeno (e probabilmente la lunghezza di questo testo lo dimostra), anche perché ci ritroviamo per la prima volta a poterci confrontare unicamente con i canali di informazione mainstream e con il marasma sempre incerto che ci restituisce la rete nelle sue varie forme. D’altra parte comprendiamo le ragioni, che non intendiamo discutere, di molti compagni e molte compagne delle altre città che hanno deciso di non seguire da vicino quanto stava accadendo nelle piazze.
Abbiamo iniziato quest’analisi a partire, soprattutto, dallo stupore che ci ha provocato vedere questo fenomeno complesso, che ci interroga in modo problematico, derubricato unanimemente in maniera, a nostro parere, semplicistica, anche da tanta parte della cultura politica e di movimento con cui siamo abituati a condividere elaborazione e pratiche.
Il nostro contributo, parziale e certamente insufficiente, vuole andare soprattutto in questa direzione: nel porre la necessità di un’osservazione più partecipe ed interlocutoria di questo fenomeno che ancora facciamo, tutt*, fatica a comprendere e descrivere e di approfondire un’analisi che riguarda tutte e tutti.
Non abbiamo ancora risposte: quello che ci spaventa, però, sono le risposte semplici.
Quello che ci preoccupa è rintracciare, nel disinteresse e nel manicheismo con cui è stato trattato il cosiddetto “Movimento dei forconi”, lo snobismo proprio di quella parte deleteria e residuale di una cultura di “sinistra”, fatta di strutture ingessate e sguardi miopi sulle forme in cui si dispiega e si organizza la realtà; quella Sinistra, o ciò che ne resta, con la quale – tutti – abbiamo detto e diciamo di voler chiudere i conti da molti anni.
Non è, di certo, questo movimento ambiguo e composito – che tiene dentro anche forme e contenuti che non ci convincono, lo ribadiamo – la prova dei fatti sulla quale riteniamo che si misurino le buone e le cattive analisi; nè la capacità o meno di confrontarsi con la complessità del reale o di forme organizzative fluide e difficili da gestire. Proprio perchè crediamo che i movimenti che abbiamo attraversato insieme a tante e tanti in questi anni hanno già dimostrato di essere all’altezza di sperimentare realtà multiformi ed inventare pratiche organizzative radicalmente nuove, in netta rottura con la tradizione politica del nostro Paese e delle nostre città, pensiamo di dover cogliere, con questo spirito, la nostra difficoltà di comprensione e definizione come una sfida.
Non è detto che il gioco valga la candela, e non pretendiamo che sia così: ci interessa solo non precluderci la possibilità di cogliere delle occasioni, come i Forconi potrebbero rivelarsi anche non essere, ma come lo sono stati tanti straordinari movimenti politici, vissuti da tutti noi, che hanno travolto e reso definitivamente obsolete le strutture di quella “Sinistra” organizzata incapace di cogliere la necessità e l’opportunità di interrogarli.

POSTILLA: I giorni di Napolitano

Cosa succederebbe – è a questo punto doveroso provare a chiederselo – se alla prossima occasione, fornita, stavolta, non dalla mancata elezione di Rodotà al Quirinale, ma di una messa in discussione dell’operato e del ruolo stesso del Presidente “usurpatore” per eccellenza, il nostro Paese si ritrovasse, contemporaneamente, paralizzato nelle arterie dei trasporti e nei centri metropolitani da forme, per quanto controverse e sicuramente “muscolari”, di sciopero dal basso? Quale forza potrebbero esprimere giornate di blocco in grado di tenere insieme composizioni e soggetti tanto diversi, accomunati da rivendicaizoni di fondo quali un radicale e mal elaborato rifiuto dell’austerity e dell’Europa (quella delle Banche, di cui Napolitano si fa garante)? Quale peso assumerebbero le loro rivendicazioni, che comunque sono, per noi tutti, naturalmente troppo parziali ed insufficienti?

E soprattutto, la “maturità” dei movimenti e dei soggetti organizzati che li vivono e li costruiscono, sarà uno strumento in grado di permetterci di essere curiosi del mondo, di cercare forme per stare dentro, se possibile, gli imperfetti dati di realtà che lo compongono, facendo interagire produttivamente il portato di pratiche maggioritarie e capacità di lettura ed analisi che abbiamo visto accrescersi – e che abbiamo contribuito ad accrescere in questi anni ; quel portato di cui, possiamo anche dirlo, ci è sembrato carente qualunque movimento “di pancia” che abbia pur avuto rivendicazioni più o meno condivisibili?

Proprio in queste ore a Roma sono in corso cariche e fermi contro i/le compagn* che hanno contestato “re Giorgio” in Sapienza. Cogliamo l’occasione per esprimere tutta la nostra solidarietà e complicità ai manifestanti.

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