L’Università nel regime di guerra

Entriamo nel dibattito sul corso negato da UniBo all’Accademia di Modena, tentando di comprendere cosa ci restituisce come componente studentesca e precaria in lotta negli atenei. Questo articolo è stato pubblicato su DinamoPress martedì 09 dicembre 2025.

Per introdurre all’articolo e migliorarne la comprensibilità, proviamo a dare un breve contesto dei fatti, nonostante il nostro interesse non sia quello di fare una ricostruzione, peraltro già compiuta altrove, ma di fare il punto su cosa questo evento ci consegna.

Il 29 novembre, il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Carmine Masiello, si è lamentato pubblicamente di un corso triennale di Filosofia negato dal dipartimento di UniBo. Il corso, che era stato pensato su misura per 15/20 allievi ufficiali dell’Accademia militare di Modena, scatenando in risposta una mobilitazione contro la militarizzazione del sapere e degli spazi universitari, è stato infine valutato insostenibile per il dipartimento. È dalle polemiche di Masiello che il governo si è fatto giustiziere di questa causa, denunciando la negazione del corso come un «un gesto lesivo dei doveri costituzionali che fondano l’autonomia dell’Università», nelle parole di Meloni.

Se scriviamo questo articolo è perché ci teniamo a entrare nel dibattito, tentando di potenziare la voce di chi lotta negli atenei del paese, contro la voce già troppo amplificata del governo. Pertanto, esprimiamo vicinanza e solidarietà allə studentə e precarə bolognesi che si stanno mobilitando e che oggi — 9 dicembre — tengono un’Assemblea di Ateneo, alle 19:00 al 38 di Via Zamboni.

Foto di Luca Mangiacotti.

Quale autonomia?

Rispetto a quanto accaduto, ci chiediamo innanzitutto “perché?”. Perché il Governo monta una questione mediatica attorno alla decisione di una singola Università? Perché lo fa mentre l’inflazione cresce e i salari hanno sempre minor potere di acquisto? Il nostro, sia chiaro, non vuole essere benaltrismo. Infatti, se da una parte crediamo che questa sia l’ennesima polemica strumentale a spostare l’attenzione, riteniamo che il punto non è tanto quale questione scegliere di attenzionare, ma come la si affronta. In questo senso, non è assolutamente una polemica slegata dai temi che ci interessa rimangano al centro dell’attenzione, tutt’altro.

Ci stupiamo che Meloni parli di lesione all’autonomia universitaria e ci chiediamo di quale autonomia lei stia parlando. È forse rispettare l’autonomia universitaria entrare a gamba tesa sulla decisione di uno specifico dipartimento di un’Università? Crediamo proprio di no, e che Meloni e Bernini giochino a mistificare concetti — come quello di autonomia — che a loro proprio non vanno giù. Ciò che questo evento dimostra, è che il governo ha un interesse preoccupante nel controllare ciò che accade nel mondo accademico, e che anzi l’attacco all’autonomia lo stanno compiendo loro. È stato di recente reso noto, infatti, il contenuto del disegno di riforma della governance universitaria prodotto dalla commissione presieduta da Galli Della Loggia, che prevede di inserire un rappresentante del ministero all’interno dei Consigli di Amministrazione degli Atenei. Sulla stessa scia, anche l’ANVUR, entità già non poco problematica, verrebbe reindirizzata ai diktat governativi. Infine, come i collettivi universitari del nord est hanno evidenziato, il DdL Gasparri e ora anche il DdL Del Rio, adottando la controversa definizione di antisemitismo dell’IHRA, propongono un controllo serrato e punitivo nei luoghi della formazione, depotenziando il movimento di solidarietà con la Palestina. Ben lontani dall’autonomia, allora, l’Università va sempre più in direzione di un’orbanizzazione.

Dunque, Meloni e Bernini non apprezzano la scelta autonoma e legittima di un’università che, insieme alle mobilitazioni studentesche, impedisce che un’istituzione militare condizioni l’offerta formativa. Forse è proprio questo il problema per il governo?

Foto di Luca Mangiacotti.

De bello accademico

Tra le considerazioni, infatti, che possiamo fare di questo evento, c’è sicuramente quella legata alla militarizzazione degli spazi del sapere, e della società nel suo complesso. Al di là delle polemiche montate sui social o a mezzo stampa, il succo di questa vicenda è che il governo ha un’evidente passione nel settore militare, nel legittimarlo e soprattutto nel renderlo pervasivo in ogni ambito sociale. Non capiremmo altrimenti perché insistere così tanto, se non ci fosse un certo immaginario, accompagnato in questi giorni dalla proposta di legge di Crosetto sulla reintroduzione della leva, e da mesi di annunci di piani di riarmo e di ingenti spese militari.

È, inoltre, interessante notare come la militarizzazione delle Università, che spesso pervade il mondo della ricerca, sia per lo più associata alle materie STEM. In questo senso, il caso di Bologna è paradigmatico non solo per la postura del governo, ma anche per il tentativo di associarsi ad un dipartimento umanistico. A dimostrazione che tutti i nostri saperi sono spendibili per la guerra.

Un altro campanello d’allarme è dato dai legami sempre più stretti che gli atenei potrebbero tenere con le vicine basi militari, trasformando a chiazze le università in continuazioni della caserma. Lo pensiamo scrivendo da una città con una base militare, che pianifica di allargarsi sul territorio, e da un’Università che già intrattiene rapporti con l’Accademia di Livorno e con il Genio navale.

Giù le mani dall’Università!

Un’altra possibilità, che abbiamo denunciato nelle ultime mobilitazioni insieme all’Assemblea Precaria di Pisa, è quella di un finanziamento pubblico con una più o meno esplicita finalità militare. Diciamo questo leggendo il nuovo piano Horizon, che introduce la “defence industry” tra i campi su cui fare ricerca. Ma, tornando ancora sul caso di Bologna, Bernini ha affermato che «il corso si farà». Ci chiediamo come e con quali soldi, visto il definanziamento strutturale dell’Università pubblica (132 mln è il taglio ai fondi di finanziamento ordinario di quest’anno). In questo senso, consideriamo i tagli come strumentali per impoverire gli Atenei e chi li attraversa, ma soprattutto per renderli più ricattabili e controllabili.

Una manovra a tenaglia si sta abbattendo sull’Università: da un lato i tagli, o eventualmente una rifinalizzazione dei finanziamenti, dall’altro una serie di riforme che aumentano il controllo e la repressione. In questo modo la formazione accademica cade nel movimento della guerra.

Tutto ciò non sta accadendo esclusivamente al mondo universitario; in generale, le finanziarie di questi anni, compresa quella attualmente in discussione, fanno il paio con i decreti legge liberticidi. Per questo motivo, ci sembra che l’Università sia lo specchio del paese, e per questo crediamo che l’Università sia un valido terreno di conflitto contro il governo. Nella condizione studentesca e precaria si intrecciano tutte le contraddizioni che abbiamo argomentato, ma anche molte altre di cui possiamo fare solo un accenno. Pensiamo al diritto allo studio, all’inaccessibilità a borse di studio e alloggi, ai contratti e ai carichi di lavoro. Per concludere, vediamo come auspicabile e necessario un confronto nazionale tra studentə e precarə, che possa aprire una mobilitazione contro l’orbanizzazione dell’Università, difendendo non quel che già esiste, ma per costruire il nuovo. A partire da un dato di fatto urgente: chi sta in Università è sfruttatə, e oggi viene sfruttatə per la guerra e il genocidio.

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