Point(s) of view – Tutte le strade portano a Point
“Signori e signore, a causa di forti turbolenze, siamo costretti a deviare l’atterraggio sull’aeroporto di Ciampino, Roma. Ci scusiamo per l’inconveniente”.
Non solo sono costretto a un dottorato mal pagato in una città con affitti costosissimi. Non solo sono stato costretto a lasciare buona parte degli affetti, per un paese dove mi squadrano dall’alto al basso. Per non parlare della lingua, con le relazioni che ne risentono. E adesso anche questa.
Ancora una volta il mondo si mette contro di me.
Arriveremo in serata, non riuscirò mai a prendere l’ultimo treno per arrivare a casa entro oggi. Dovrò dormire in stazione. Sì, ma in stazione dove? Vabbè, in questo momento non è il primo problema. La prima cosa da fare è prendere l’ultima navetta verso la città.
Finalmente l’aereo atterra, scendo le scalette così veloce che tra un po’ mi spacco la testa (qualcuno mi manda pure a fanculo, giustamente). Comincio a correre. Corro corro corro. La perdo di sicuro, questo aeroporto è infinito. Le valige pesano un casino, sudo come non mai, i vestiti mi si appiccicano addosso, il passo è goffo e stanco, i polmoni bruciano in maniera insopportabile. “Exit”, sono fuori .È lì, la vedo in lontananza. Cazzo, sta per partire! “Ferma, ferma, ferma!”, cerco di urlare più che posso. Si ferma, incredibile. Dai, almeno questa sto mondo me l’ha mandata.
Il viaggio è straziante: l’aria condizionata a palla mi taglia il collo, i crampi per la fame non mi danno tregua. E non ho la minima idea di dove andare una volta arrivat*. Tra l’altro fa un freddo cane e una notte sulle mattonelle di tiburtina non ci penso proprio a farmela. Che faccio, che non faccio? Mondo di merda. Si arriva, un vento fortissimo. Toh, mi si è anche scaricato il telefono. Un mal di testa lancinante che picchia dietro gli occhi, rischio anche di ammalarmi. Una sola domanda a prendermi a pugni le meningi: “E mo che cazzo faccio”?
Aspetta, questa volta la domanda si rivolta in risposta, la medaglia si gira. A mandarmi l’idea non è un’intuizione, un dio o una fata, ma una di quelle scritte a led arancione sulla fronte degli autobus. Un numero: 409. In testa comincia a disegnarsi un tragitto con il font di google maps. 409, scendo alla stazione dei tram a Largo Preneste. Oppure si chiamava Largo Prenestino? Sti cazzi, tanto ho capito. Poi il primo tram che vedo, direzione Termini. Aspetta, no! Vabbè, appena sceso dal bus guardo i solchi metallici dei tram e devo prendere uno di quelli che va verso sinistra. Poi c’è quel bar sotto il cavalcavia. Sì dai, ci sono. Non posso sbagliarmi.
Faccio quanto il mio google maps mentale mi dice. Arrivo. Prendo la via alla destra di quel bar, una strada un pochetto in salita, al cui fianco ci sono dei campi da calcetto. Via Fortebraccio, la vedo. Daje, la porta è anche aperta, una luce viene fuori dall’interno. So così content* che l’edificio mi pare Versailles. Entro. Salgo al terzo piano, schivo un cane: “Bello che sei!” (Il cane avrà pensato: “Kittesencula”). C’è un sacco di casino che viene dalla cucina, e il cuore comincia a impazzire. La sento, una melodia in parlata romana. Entro. Un attimo di silenzio… baci, abbracci, sguardi d’amore, pacche sulla spalla, sorrisi di una dolcezza indescrivibile, mi vengono subito allungati una birra e un piatto di pasta avanzato. “Ao’, ma che cazzo ci fai qui?”. Rido! Non lo so, so solo che non vorrei essere altrove.
Si continua fino a tardi, le 7 di mattina circa, il tempo passa e non me ne rendo nemmeno conto. Davanti a me frammenti di vita con le loro storie, ansie, piaceri e desideri; un mosaico di carne, geografie, affetti e odori che adorna il centro del mondo. Essere lì era come essere ovunque, a galla sulle onde dello spazio e del tempo.
È ora di andare a dormire. Mi metto su un largo divano di quel piano, in una antistanza a una camera da letto. Una delle occupanti mi porta una coperta, una tipa coi capelli mossi. Dalla camera adiacente escono due tra i ragazzi che c’erano anche prima: uno scuretto, l’altro una cifra alto e mezzo biondino. Tutt* mi danno un bacio, un cenno della testa e uno sguardo di intesa. Mi augurano la buona notte.
Mi corico. Domani col cazzo che riparto, mi sto qui qualche giorno in più, tanto i libri ce li ho dietro, e la compagnia è delle migliori. Chiudo gli occhi.
Lasciatemi lì, sospes*.
Non faccio in tempo a finire di rilassarmi che squilla il telefono. È mia madre:” Ma si può sapere dove sei finit*, è tutta la notte che ti cerchiamo!!”. Rispondo:” o ma’, sto a PointBreak, dove vuoi che sia?”.
Non importa se stai tornando da Lisbona o Parigi, dove hai vinto un dottorato che sai bene non sarà per la vita. E non importa se sei l’ennesimo migrante infraregionale, partito per strappare un po’ di welfare qui e là. E non importa se hai perso la borsa di studio e l’alloggio, perché non è facile fare cfu quando sei anche costretto a lavorare. E non importa se di studiare non te ne è importato molto. In questo mare burrascoso che è l’esistente, troverai sempre un porto: Point Break, un rifugio per tutt*.
Da ogni angolo, vi si ama in tutti i dialetti del mondo!
Un* che si è accollat* più volte