ISLAMOFOBIA: una questione di genere?
di eXploit · Pubblicato · Aggiornato
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È in riconoscimento di questi problemi e non come soluzione di un problema che costruisco la frase “uomini bianchi stanno salvando donne scure da uomini scuri”, una frase che attraversa come fil rouge l’attuale binomio “genere e sviluppo”. (G.C. Spivak)
Nel profondo della costruzione dell’identità europea/occidentale, esiste un cuore nero, un marchio costitutivo troppo spesso nascosto all’interno della narrazione del glorioso avanzare della civiltà democratica: si tratta di quell’opposizione fondativa, spesso violenta e in ogni caso fortemente razzializzata, tra Oriente e Occidente. La cultura Europea si è molto spesso affermata e definita ai propri stessi occhi in opposizione a quella alterità per eccellenza che si rinveniva appena dall’altra parte del Mediterraneo, mediante quell’intreccio di dispositivi discorsivi che, dopo l’opera di Said, abbiamo imparato a chiamare “Orientalismo”. Ruolo fondamentale, all’interno di queste proiezioni occidentali sull’indistinto “Oriente”, è stato quello giocato dai discorsi che si sono costruiti a proposito dei corpi delle donne orientali, dei loro diritti e delle loro libertà, sviluppando un’immagine compatta e difficile da scalfire della donna orientale (quella musulmana, in particolare) come semplice vittima di un sistema culturale oppressivo, di valori religiosi imposti dall’esterno, come pura subalternità che non può prendere parola.
In epoche recenti, l’enorme dibattito sviluppatosi in Europa e negli Stati Uniti sulla questione del velo, ha delineato un campo (tutto occidentale) all’inteno del quale si sono stabiliti parametri precisi a cui attenersi per attestare l’emancipazione femminile e la libertà di genere; questo stesso discorso, spesso e volentieri sviluppato proprio all’interno della tradizione femminista (bianca), è diventata, poi, intelaiatura teorica utile a giustificare operazioni militari di stampo neocoloniale.
All’indomani dei fatti di Parigi, razzismo, sessismo e islamofobia ci sembrano mali dilaganti, da combattere con l’urgenza di restituire parole degne, all’altezza della complessità che il mondo ci sta mettendo davanti, opposte alle facili dicotomie schiacciate tra razzismo e buonismo.
Ci chiediamo invece: è possibile decolonizzare il nostro sguardo femminista sul mondo? È pensabile una prospettiva queer situata, che si ponga anche il problema dei confini razziali e religiosi che vengono tracciati, spesso al suo stesso interno? Come pensare una modernità che sia davvero emancipatoria per tutte e tutti, ma multifocale, e non emanata unidirezionalmente da un centro verso le periferie?
L’intersezionalità delle lotte delle black women, i femminismi postcoloniali e l’esempio recente delle donne curde, che rivendicano la propria appartenza religiosa mentre combattono lo Stato Islamico, ci sembrano punti saldi da cui partire.
Senza alcuna pretesa di esaustività, ma, al contrario, rivendicandoci la necessità collettiva di trovare parole nuove all’altezza dei tempi, vorremmo proporre una serie di dibattiti, condivisioni, incontri pubblici su questi temi.