LA SALUTE È UNA QUESTIONE POLITICA: riflessioni a un anno dallo scoppio della pandemia
Dopo un anno di pandemia sentiamo la necessità di parlare di salute e di riflettere sulle scelte prese dallo Stato nella gestione della Sanità Pubblica. È necessario rimettere al centro la questione della riproduzione sociale e della cura, risignificarli in senso transfemminista e opporli alla visione patologizzante e medicalizzante di cui siamo statə investitə in questi mesi, proprio a partire dal fallimento del progetto neoliberale che estende profitto e mercato in ogni ambito.
Conseguenze della gestione neoliberale della pandemia
La strategia del lockdown ha reso evidente come tutto sia sacrificabile in nome della produzione: mentre il mondo si è fermato, il contagio ha continuato a diffondersi nei luoghi di lavoro. Mentre i nostri corpi erano relegati in casa, altri corpi, sfruttati, precari, sottopagati, sono andati a lavorare in quei settori che, definiti “essenziali”, hanno reso possibile questa chiusura: il food delivery, l’istruzione a distanza, il comparto sanitario, la grande distribuzione e la logistica, ecc. La conclamata “essenzialità” non è tuttavia stata accompagnata da maggiori tutele, aumenti di salari e equi diritti per i lavoratorə dei settori citati.
La riproduzione sociale, e in definitiva la gestione della crisi, sono state delegate alle famiglie, al lavoro di cura dentro le mura domestiche, al lavoro relazionale sempre più complicato. Le nostre spalle, di donne, giovanə, precarə, disoccupatə, corpi vulnerabili, si sono piegate sotto il peso di questa pandemia, sotto il peso della cura che costantemente ci veniva richiesta. E ci siamo sentite abbandonatə, solə, impauritə. All’interno della sanità pubblica, stremata già da tempo da tagli e privatizzazione, abbiamo assistito alla sospensione di molti servizi in nome del covid-19, a causa della mancanza di personale nei servizi territoriali e di un sistema di prevenzione funzionante. Il sistema “ospedalocentrico” ha mostrato tutta la sua inefficacia e ha favorito ulteriormente il diffondersi dei contagi. Ma questo fallimento va ben oltre l’organizzazione della sanità, investe tutto il sistema di riproduzione della vita in senso ampio. Sappiamo che non solo che esiste un collegamento tra inquinamento e diffusione del virus, ma che i disboscamenti, gli allevamenti intensivi, la devastazione delle terre, delle montagne, hanno favorito questa pandemia e porteranno in futuro ad altre pandemie, che non siamo prontə ad affrontare.
Le scelte adottate dallo Stato italiano per gestire questa situazione hanno mostrato come l’intento non sia mai stato quello di uscire dalla pandemia: sono state messe delle toppe, tutt’ora temporanee e insufficenti, cercando di tutelare le grandi aziende che hanno continuato a fare profitto sulle nostre vite. Cercando quindi di tutelare l’economia di un Paese che, avvolto dalla retorica della colpevolizzazione individuale, ci ha costretto al “sacrificio” senza tener di conto della nostra salute, mentale, fisica e sociale. Senza tener conto degli effetti che queste politiche, errate, avrebbero avuto sulle nostre vite.
Questo è evidente, per esempio, nel dibattito che ruota intorno all’apertura delle scuole: un’oscillazione costante tra la riapertura – per permettere ai genitori di andare a lavorare – e la chiusura, giustificata dalla scelta di additare giovani e bambinə come maggiori portatori del contagio nelle case e soprattutto tra gli anziani, a cui è spesso affidata la cura dei primi. Le scuole sono quindi rimaste prevalentemente chiuse; la Dad ha creato problemi di apprendimento, solitudine, ansia; le mamme si sono ritrovate a fare da educatrici, compagne di classe, amiche; la frattura tra salute e lavoro, tra lavoro e ambiente, si è intensificata; le gerarchie sessuali, lo sfruttamento si sono consolidati. Nel frattempo la depressione, il tasso dei suicidi, l’autolesionismo tra i giovani, sono aumentati esponenzialmente. In questo sterile dibattito pubblico, quindi, la scuola è stata intesa solo come un luogo di “appoggio” dei bambinə per permettere lo svolgersi dei lavori produttivi, senza invece riflettere sull’importanza dell’educazione dei/delle giovani; senza riconoscerla come luogo primario di incontro, di crescita, fulcro anche di tutta quell’educazione informale, fondamentale nella formazione dell’individuo.
Dall’altro lato in Italia siamo ancora legati ad un idea di welfare familistico, tanto che una delle due soluzioni proposte per far fronte alla pandemia è stato il Family Act, un disegno di legge che garantisce sussidi alle famiglie con figli a carico. Questa proposta mostra come, da una parte, una donna venga considerata degna di tutele solo quando ricopre il ruolo di madre, e dall’altra, come venga ignorata completamente una parte consistente della popolazione: giovani, donne sole con figli, coppie non eteronormate, donne e uomini migranti, coppie che non possono avere figli, tutti soggetti che hanno subito questa pandemia senza poter ricevere sussidi statali.
Da anni, Non una di Meno ha identificato nella famiglia patriarcale eteronormata il luogo in cui avvengono il maggior numero di violenze domestiche e sulle donne, aumentate notevolemente durante la pandemia; lo spazio di riproduzione della divisone di genere e sessuale del lavoro; lo strumento ideologico usato a scopi razzisti. Da un lato un welfare legato alla famiglia, dall’altra (soprattutto per le persone migranti) il ricatto dei diritti legati a famiglia e salario, hanno reso questa pandemia più stringente per alcunə.
Infine la pandemia ha fatto emergere il fallimento del modello geopolitico attuale, specialmente attraverso la gestione dei vaccini e nel coordinamento che c’è stato tra le varie Nazioni e la grandi case farmaceutiche. Si è delegato la ricerca di una “soluzione” alla scienza, ma la scienza, come sappiamo, è in difficoltà. Non ci sono modi veloci per uscire da questa situazione, gli scienziati non hanno la risposta a portata di mano, e questo anche perché il modello di ricerca neoliberale è inefficace e controproducente: il publish or perish ha consistentemente ostacolato la ricerca di una cura e l’editoria scientifica, organizzata su logiche di potere, ha reso ancor più complessa questa ricerca.
Cura, Salute, Vulnerabilità: parole e narrazioni a un anno dalla pandemia
Per capire il periodo storico in cui ci troviamo e trovare forme per agire all’interno di esso, è necessario soffermarsi anche sulle strategie retoriche e sulle narrazioni mediatiche utilizzate per descriverlo: è stato evidente in questo ultimo anno più che mai come queste influenzino il modo sia di percepire, che di vivere materialmente il proprio tempo.
Una delle principali strategie retoriche, che hanno reso accettabile in poco tempo una misura così invasiva come quella del lockdown, è stata la messa in campo di un ventaglio di false scelte dicotomiche riassumibili in quello che potremmo chiamare il conflitto tra salute e socialità. Questo conflitto, alla base della narrazione mainstream della pandemia, ha avuto e sta avendo il pricipale scopo di distogliere l’attenzione dai grandi responsabili di questa crisi attraverso la colpevolizzazione del singolo.
Le prime vittime di questa falsa contrapposizione sono stati i giovani, la scuola e il sistema generale della formazione-educazione. La narrazione che vede l’apertura delle scuole come sinonimo di un genocidio degli anziani, maschera in definitiva non solo il disinteresse per la ricerca di qualunque alternativa, ma anche il rifiuto verso una presa di posizione incisiva nei confronti del motore primario del contagio: la produzione. Non sono infatti mancati gli studi e i dati a supporto di quel che a molti è stato evidente sin dall’inizio della pandemia: la maggior parte dei contagi non sono avvenuti nelle scuole, nei luoghi di socialità e cultura, nelle piazze, ma a livello industriale e produttivo. Questa narrazione va poi di pari passo con la totale assenza di un dibattito sugli effetti che la chiusura delle scuole sta avendo sul lungo periodo per i ragazzi e le ragazze: gli ultimi dati rivelano come siano aumentati vertiginosamente infatti autolesionismo e suicidi tra i giovani, ma non esista nessuna presa in carico di questo problema da parte delle istituzioni, né una presa di parola su questo fenomeno da parte della politica.
L’assenza di dibattito sugli effetti psicologici della strategia del lockdown sul lungo periodo trova la sua matrice in un concetto tutto moderno di salute (vedi etimologia) che separa il benessere fisico da quello psicologico e sociale. La pandemia ci pone infatti di fronte ad una questione fondamentale: quale idea di salute corrisponde al modello neoliberale di gestione della vita? Di quale concezione di salute abbiamo bisogno per uscire da questo fallimentare modello?
Come non ha smesso di sottolineare l’elaborazione degli ultimi anni del movimento transfemminista, per lo Stato neoliberale la salute è intesa in senso patologizzante e la cura è sinonimo di medicalizzazione: la salute è concepita come norma, normalità ed è contrapposta alla vulnerabilità che diviene quindi eccezione, emergenza o problema.
Questa contrapposizione è la base discorsiva su cui è strutturato un sistema sanitario che, per quanto pubblico, ha fallito nel gestire questa pandemia perché pensato come sistema emergenziale, piuttosto che di prevenzione e di supporto continuo al benessere delle persone. Questo modo di leggere la vulnerabilità ci porta a decostruire un’altra fittizia contrapposizione alla base della narrazione mainstream: quella anziani-giovani. Ripartire dalla vulnerabilità, infatti, ci conduce a notare come giovani e anziani siano stati accomunati, oltre le retoriche, dall’appartenenza a quella parte di società sacrificabile in questa pandemia perché non produttiva in termini di ricchezza per il Paese.
Si pone quindi la questione di ripensare una cura che metta al centro la vulnerabilità collettiva e la prevenzione, il benessere fisico insieme a quello psicologico e sociale, il corpo insieme all’ambiente, la salute oltre la mera capacità di produrre.
Un approccio transfemminista, intersezionale ed ecologista non può prescindere da questo: la salute fisica non può essere scissa da quella mentale e il benessere individuale non può esserlo dalla cura della comunità e dell’ambiente. La piattaforma “Sindemia 0202” ha offerto ottimi spunti di analisi e organizzazione, a partire dalla scelta di rinominare la pandemia in, appunto, “sindemia”, ovvero la sovrapposizione di problemi di salute con fattori ambientali, economici e sociali che si sono scaricati sulle fasce più deboli della popolazione aggravando le diseguaglianze.
Non possiamo, infine, non porre l’accento anche sulla questione della temporalità istituita dalla crisi sindemica. Da un lato c’è chi ha vissuto e sta vivendo questa fase in attesa della fine del covid-19, dall’altro chi invece (soprattutto giovanissimi e anziani) si è ritrovato dentro a un nuovo quotidiano.
Rifiutare la visione dominante in cui si immagina la fine a breve termine di questa situazione può essere un utile esperimento immaginativo. In primo luogo, escludere l’idea di una fine imminente ci aiuta ad uscire dalla stasi e a reimmaginare un attivismo politico a misura del nostro tempo. La speranza che tutto finisca con il vaccino, invece, si lega all’idea di uno Stato redentore e salvatore a cui affidare la gestione e la salvezza delle nostre vite.
Sia per quanto riguardo la crisi in generale che, nello specifico, la questione dei vaccini, la gestione statale è stata tutt’altro che virtuosa. Anche la scoperta del vaccino, celebrato come grande successo, è stata possibile perché gli Stati hanno versato milioni ad alcune società private di produzione farmaceutica. Nonostante ciò, gli Stati stessi si ritrovano a pagare il vaccino, in una gestione geopolitica dell’accesso che è semplicemente e esclusivamente dettata dalla potenza economica e dal profitto. Ovviamente qualunque critica allo stato redentore sulla questione dei vaccini è descritta come automaticamente novax. D’altro canto le uniche prese di parola esplicite sono quelle dei novax stessi: non c’è presa di parola altra perché questa polarizzazione del dibattito lo impedisce.
Fino ad ora si è scelto, da più parti, di non prendere parola per il rischio di assumere posizioni scivolose: forse è arrivato il momento di riconsiderare questa scelta. Le narrazioni no vax (e affini) pongono una dicotomia tra un la popolazione passiva e un potere indefinito, e propongono una strategia di sottrazione a qualunque forma di medicalizzazione. La critica che invece è forse giunta l’ora di muovere è quella ad un gestione statale malfunzionante, totalmente mancante di informazione e coinvolgimento delle persone nei processi riguardanti la loro stessa salute.
È giunta l’ora di riempire lo spazio bianco, colpevolmente creato dalla gestione neoliberale, tra chi esercita il potere e chi lo subisce, attraverso rivendicazioni collettive e l’attuazione di pratiche di mutuoaiuto e di ridistribuzione, come alternative al malfunzionamento del sistema attuale.È il momento di di ripoliticizzare la salute e di riappropriarci del suo significato; è giunta l’ora di cominciare a fare di questa riappropiazione una prassi, un modo di vivere e di agire all’interno di questa crisi, che non è soltanto una pandemia, ma è una crisi della riproduzione della vita tutta.
Nella prima parte di questo testo abbiamo sottolineato come la salute debba diventare un argomento centrale all’interno delle rivendicazioni politiche. Viviamo in un mondo dove gli interessi economici non risparmiano neanche un bene come un vaccino durante una pandemia, e dove, in generale, la salute viene vista come mera ospedalizzazione e non come un concetto ben più ampio e capillare. E’ in questo contesto distopico che rivendicazioni politiche e pratiche devono trovare spazio, evidenziando come un concetto olistico di salute, che non escluda il benessere alimentare, riproduttivo e psicologico dell’individuo, non possa prescindere dalla territorialità. È infatti dai servizi territoriali che può partire una riappropriazione da parte delle persone di spazi di autonomia, informazione e partecipazione alla propria salute. Inoltre, una macchina vaccinale seria necessita di capillarità dei servizi sul territorio. Dopo un anno dallo scoppio della pandemia conosciamo fin troppo bene il fallimento dell’organizzazione neoliberale e ospedalocentrica della sanità pubblica: è arrivato il momento di cambiare modello!
Vaccini: la scienza in un momento di crisi o la scienza in crisi?
Sin dall’inizio della pandemia, i politici si sono presentati come semplici esecutori di direttive scientifiche e su questo hanno basato l’autorità delle loro decisioni. Dopo un anno, sappiamo che sono spesso state decisioni politiche, piuttosto che scientifiche. Oggi più che mai, ci rendiamo conto che la scienza e la salute sono state usate per fini politici ben precisi, rivelando la loro intrinseca non-neutralità: il fatto che la salute pubblica e l’economia abbiano rappresentato un tradeoff tra cui scegliere ha avuto lo scopo di giustificare la prioritá economica (come da copione nel sistema del capitale). Ci chiediamo, quindi, quale sia e quale debba essere il ruolo della scienza in generale, e in particolare, nella cultura popolare e nel policy-making.
Da un lato il sapere medico è stato reso indiscutibile (e inspiegabile a chi non fa parte del settore) dalla narrazione pubblica. Dall’altro questo stesso sapere, proprio perchè calato dall’alto, senza un’adeguata informazione né un coinvolgimento diretto delle persone, è stato accettato con diffidenza o persino rifiutato tout court. Ci è stata suggerita la posizione dei soggetti passivi, non in grado di comprendere né tantomeno di poter prendere parola su qualunque questione riguardasse la nostra stessa salute, i nostri stessi corpi. Ci è stata perciò negata l’autonomia e la partecipazione nell’organizazzione della salute pubblica, in un contesto in cui essa ha prepotentemente invaso ogni aspetto della nosta vita.
In questo contesto, la questione dei vaccini è emersa come la punta di un iceberg nella confusione generale. Quando siamo state fortunatə (cioè se viviamo nei paesi “ricchi” del mondo e siamo consideratə uno strato essenziale o a rischio della popolazione) allora forse abbiamo potuto accedere ad uno dei vaccini. Gli effetti a lungo termine non sono stati studiati, la campagna di comunicazione è disastrosa (come dimostra il caso AstraZeneca) e la persona media fa fatica ad informarsi – ma basta avere fiducia. Fiducia in che cosa?
Sappiamo di non poter dar fiducia a un sistema che nonostante abbia investito soldi pubblici nella ricerca di un vaccino si ritrova a doverlo nuovamente pagare alle case farmaceutiche che ne detengono il brevetto. Non possiamo dare fiducia ad un sistema che legittimi il brevetto su quella che al momento sembra l’unica soluzione per far fronte alla crisi pandemica che tiene in scacco il mondo. Il brevetto non è altro che un monopolio intellettuale che scoraggia la circolazione democratica e libera della conoscenza, come sarebbe socialmente efficiente. Cosi i brevetti hanno come conseguenza la riduzione dell’offerta competitiva e l’aumento dei prezzi, che risulta nell’illusione che non ci siano abbastanza vaccini nel mondo (https://jacobinitalia.it/il-caso-vaccini-mostra-il…/). Visto che lo sviluppo dei vaccini è un prodotto dello Stato attraverso l’investimento pubblico nella ricerca di base in generale e l’acquisto anticipato in particolare, è scandaloso che i profitti della pandemia vadano nelle tasche del Big Pharma attraverso l’applicazione dei brevetti.
Non è però ovunque così: mentre le potenze occidentali fanno muro, il Sud Africa e l’India stanno portando avanti una battaglia per abolire brevetti sui vaccini e a Cuba ci sono 4 candidati vaccini in dirittura d’arrivo che saranno completamente pubblici. Questi esempi possono servire come linea guida per le nostre rivendicazioni collettive. L’esempio di Cuba, un paese socialista dove il settore delle biotecnologie è totalmente pubblico, dimostra che non abbiamo bisogno di aziende private per innovare. Il vaccino è un risultato di anni di ricerca di base, pagato dallo Stato. Allo stesso tempo, l’Italia è ultima in Europa per fondi alla ricerca e istruzione, dedicando solo l’1,4% del proprio Pil alla ricerca, che implica una vità di precarietà per quellə che fanno scienza. Una rivendicazione fondamentale quindi non può che riguardare l’investimento pubblico nella ricerca, medica e non solo.
Per quanto riguarda nello specifico la questione dei brevetti, qualcosa si muove anche in Europa. La raccolta firme “no profit on pandemic” (https://noprofitonpandemic.eu/) ad esempio, chiede che i vaccini e le cure diventino un bene pubblico globale, liberamente accessibile a tuttə. Ma la nostra capacità di agire su questo tema non può fermarsi alla sola raccolta firme. I tempi che richiede una campagna al livello europeo sono estremamente dilatati e sappiamo che l’attivismo digitale assume potenza solo se accompagnato dalla potenza dei corpi, da un lavoro sul territorio di informazione e sensibilizzazione. Vogliamo davvero rimanere un altro anno chiusə in casa aspettando che BigPharma concluda tutti i suoi accordi gonfiando le tasche dei suoi azionisti con centinai di miliardi pubblici? Quello che ieri sembrava impensabile, a causa del dogma neoliberale che vuole i brevetti e il profitto come motore dell’innovazione, oggi è di nuovo al centro del dibattito pubblico. Portare questo dibattito nelle piazze, tra le persone, deve diventare una priorità che speriamo possa condurci a mettere in discussione molto più del semplice brevetto sul vaccino ma l’intera messa a profitto della salute e della cura.
La salute mentale è una questione politica: rivendicazioni, pratiche, terapie collettive
Sin dall’inizio della pandemia abbiamo posto l’accento sui limiti della concezione neoliberale di salute e cura e abbiamo indicato come la separazione tra salute fisica e benessere psicologico si sia rivelata uno strumento concettuale insufficiente e persino dannoso per leggere ciò che ci sta succedendo e ciò che è successo nell’ultimo anno. Nonostante dallo scoppio della pandemia il tema della salute individuale e collettiva abbia propotentemente invaso ogni ambito di conversazione, dal salotto televisivo allo scambio privato, abbiamo visto un’assenza totale di dibattito sugli effetti psicologici che la strategia del lockdown avrà e sta avendo oggi e sul lungo periodo. A fronte di una crescita esponenziale di autolesionismo e suicidi durante l’ultimo anno, le istituzioni non hanno fatto che limitare le persone (spesso con misure rivelatesi persino inefficaci dal punto di vista della diffusione del virus) senza mai porsi il problema degli effetti di chiusura e isolamento. Non c’è stato infatti nessun tentativo istituzionale nemmeno di tamponare la situazione e tutte le iniziative in questo senso hanno avuto luogo solo grazie alla autorganizazzione e alla buona volontà di professiontə che alla luce dell’allarmante aumento di malessere e disagio psicologico hanno offerto le loro competenze a titolo gratutito o a prezzi ridotti. Ancora una volta mutualismo e autorganizzazione hanno in molti casi messo le toppe ad un sistema che fa acqua da tutte le parti.
Non è stato però ovunque così: in Francia per esempio il Governo ha deciso di dare per le fasce più giovani assistenza psicologica gratuita che fa parte di una storica campagna nazionale sulla sensibilizzazione della salute mentale, in crisi gia prima della pandemia. Il fatto che la situazione almeno per quanto riguarda la salute mentale sia migliore in altri paesi offre sicuramente interessanti spunti sulle possibili rivendicazioni e sulla loro fattibilità: l’assistenza psicologica gratutita non solo per lə giovani ma per tuttə è senz’altro un punto su cui insistere ed attivarsi.
Allo stesso tempo ci preme sottolineare come la necessità di un supporto psicologico sia solo una parte del problema e come quindi l’accessibilità a tale supporto non rappresenti una soluzione esaustiva. Il disagio psichico crescente già prima della pandemia, aumentato vertiginosamente dal suo scoppio, è radicato in uno modello di vita che vede le persone esclusivamente come produttorə-consumatorə, come cioè fonti di profitto. Nei paesi a capitalismo avanzato, già da ben prima della pandemia, la risposta a questo disagio è stata di aumentare il comparto psicologico, finanziandolo, senza davero agire alla radice del problema, senza cioè un cambiamento di paradigma che riporti al centro dell’organizzazione sociale il benessere e la felicità individuale e collettiva.
Come questo discorso si evolve e si adatta ad un contesto come quello pandemico che stiamo vivendo? Per rispondere a questa domanda bisogna chiedersi che cosa sia stato tolto alle nostre vite, alle vite di tuttə da causare un malessere così diffuso. La risposta è semplice e complessissima allo stesso tempo: nell’ultimo anno ci sono state tolte la libertà di movimento, la possibilità di stare all’aperto, la possibiltà di stare assieme ovvero il nostro diritto alla socialità. In breve, la possibilità di esistere al di fuori della nostra capacità di produrre e consumare. Mai come dopo questo anno la questione è stata così chiara: non solo il conflitto tra socialità e salute è stata una strategia retorica finalizzata a distogliere l’attenzione dai grandi responsabili di questa crisi, ma soprattutto la socialità è una condizione necessaria alla salute, al benessere psicofisico e alla felicità individuale e collettiva. Mai come adesso ci accorgiamo quanto quei pochi momenti che ci sono rimasti per stare insieme siano terapeutici.
E allora, insieme al supporto psicologico gratuito chiediamo condizioni di vita migliori e l’attuazione di misure anti-contagio che tengano di conto dell’importanza, proprio da un punto di vista della salute collettiva, della comunità e della socialità, di poter relazionarsi e interagire fuori dagli schermi.
Limiti e possibilità del mutualismo
Il sistema economico attuale, il cui fallimento risulta ormai tangibile ed inequivocabile, ha concentrato la ricchezza nelle mani di pochi, lasciando la maggior parte della popolazione mondiale “fuori al freddo”. Insieme al sistema economico, abbiamo assistito al fallimento dello stesso sistema previdenziale, e quindi alla nascita del bisogno di attività di mutuo-aiuto. In quello spazio lasciato bianco dalle istituzioni, l’autorganizzazione delle persone ha costruito forme di solidarietà radicale in grado di sopperire alle mancanze della gestione neoliberale della pandemia. In quella che si è rivelata essere una crisi della riproduzione sociale in cui lo Stato ci ha definitivamente lasciatə solə a gestire i nostri bisogni più basilari, le varie forme di mutualismo hanno rappresentato la sopravvivenza di moltə, dandoci la possibilità di sperimentare con mano quanto l’organizzazione dal basso sia in grado di creare spazi di libertà e di partecipazione nella cura propria e collettiva.
Risulta ormai essenziale vedere attività mutualistiche non come semplici atti di beneficenza, ma come atto politico, dato che riempiono vuoti lasciati dal welfare malfunzionante del sistema. La politicizzazione delle pratiche di mutuo aiuto, (come, per esempio, le tante brigate di solidarietà, la spesa solidale, gli sportelli legali e psicologici autogestiti) le eleva dalla mera beneficenza, alimentare e non, ad una forma di protesta. Sorge quindi la necessità di enfatizzare questo concetto, per creare una distinzione tra la ridondanza degli enti di beneficenza già esistenti, ormai dati per scontati e perfettamente inseriti nei meccanismi del sistema come fittizia fonte di redenzione, ed una forma di mutualismo che invece ha lo scopo di proporsi come alternativa, come esempio per le economie fuori mercato (cioè fuori dalla logica della produzione capitalistica). L’esistenza, l’importanza e la necessità di queste pratiche alternative è stata messa a nudo con enfasi durante questa pandemia, dimostrando come il nostro Paese abbia creato, suo malgrado, un substrato fertile dove pratiche di ridistribuzione dei beni potessero attecchire.
La questione alimentare è un esempio perfetto per dimostrare il fallimento delle sistema, trattandosi di un bene essenziale, che distribuito secondo le logiche di mercato attuali crea un mondo dove spreco alimentare e denutrizione coesistono. Praticare e portare alla luce esempi contro-egemonici è ormai indispensabile per immaginarsi un futuro diverso, distante da logiche dove i beni vengono distribuiti in base al potere d’acquisto, non in base alle necessità. Le attività mutualistiche inoltre, inserite in un contesto sociale sempre più pervaso da alienazione e malessere psicologico e sociale, possono fungere come istituzione di condivisione e di reciprocità, tanto per chi le organizza, quanto per chi ne fruisce, abbattendo distanze socio-culturali ed allineandosi alla definizione autentica di “mutualismo”, cioè un rapporto tra pari che genera un vantaggio reciproco.
A fronte del crescente bisogno, avvalorato dall’aumento continuo delle persone che usufruiscono della spesa solidale (esperienza che come collettivo abbiamo toccato con mano all’interno della Rete Pisa Solidale), di quelle che partecipano alla scuola di italiano, di quelle che si rivolgono a Obiezione Respinta per il supporto all’Ivg e non solo, ci chiediamo anche quali però siano i limiti di questo mutualismo. Se il mutualismo si inserisce nelle crisi della riproduzione sociale e se questa crisi è diventata cronica, che futuro queste esperienze ci lasciano intravedere? Se la temporalità che questa pandemia ha istituito si va dilatando fino a prendere la forma di una nuova normalità, come immaginiamo un cambiamento radicale di paradigma a partire da queste esperienze? Tra un anno le nostre vite saranno sostenibili e contemporaneamente assorbite da questo tipo di attivismo? Ovviamente le risposte a queste domande non sono semplici e a portata di mano. Sappiamo però che queste forme di vita poggiano anche su un sistema economico e sociale indipendente da noi e che quindi il piano delle rivendicazioni e quello delle pratiche di mutualismo s’intrecciano indissolubilmente. Per questo oggi torniamo anche con questo testo a prendere parola e ad immaginare come costruire il nostro futuro come comunità e come persone senza fare mistero dei nostri dubbi. Vogliamo che questo sia soltanto l’inizio di una discussione aperta che ci riporti di nuovo nelle strade e nelle piazze, per costruire insieme a tantə altrə un mondo in cui la salute, il benessere e la felicità delle persone siano l’unica logica intorno a cui si organizza la società. Ancora una volta, come 4 anni fa, quando il 7 Aprile, giornata mondiale della Salute, abbiamo occupato la prima volta la Limonaia-Zona Rosa a muoverci è stato e sarà il desiderio!